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Dalla Bottega a casa


Sono a casa ormai da non so più quanti giorni. E’ giovedì e il mio sguardo è fisso sul vetro della mia finestra. Ma anziché farsi catturare da quei pochi movimenti di persone in strada, la mia mente ritorna a uno dei tanti giovedì pre Codiv 19, quando ero a lavoro.

Sono le 14.00, io e i miei colleghi, educatori come me della Bottega, stiamo tornando dalla pausa pranzo e davanti alla porta ancora chiusa troviamo Q.

Q è una donna del quartiere, viene dal Pakistan e vive qua da parecchio tempo, l’abbiamo conosciuta insieme alla sua bimba qualche anno fa e passando insieme tanto tempo abbiamo scoperto le sue qualità, una di queste è di essere molto brava a cucire. Le abbiamo quindi proposto di unirisi alla Bottega di Macramè di I. per creare insieme oggetti da vendere e insegnare ad altre donne quello che sanno fare. I. è un’altra donna del quartiere, lei viene dal Marocco e vive qui con suo marito.

Ci ha conquistato mostrandoci i suoi lavori in macramè, una particolare tecnica di annodatura con la quale si possono realizzare innumerevoli creazioni.


I nostri giovedì pomeriggio si sono costruiti intorno a loro, un tavolo di lavoro non bastava, tra fili e macchine da cucire si è creata un’atmosfera capace di accogliere tante donne diverse, accumunate da un grande desiderio, quello di uscire dalle proprie case, imparare cose nuove e conoscere nuove persone.

C’è chi è arrivata determinata ad imparare, munita di fogli e penna per prendere appunti, chi si è seduta insieme a noi senza sapere con certezza cosa sarebbe successo, chi è entrata incuriosita da tanto affollamento di colori, oggetti, risate.


Mentre alcune erano indaffarate a sbrogliare kilometri di filo e altre con estrema concentrazione studiavano le macchine da cucire, hanno iniziato a conoscersi superando il limite della lingua, sforzandosi di usare l’italiano che le fa sentire insicure con la paura di sbagliare ogni parola pronunciata. Nonostante questi sentimenti siano sempre presenti in loro, come freni ben tirati, si sono sfidate, hanno combattuto la loro insicurezza e affrontata.

Chi ha più dimestichezza con l’italiano, aiuta le altre nel comprendere e nello spronare a parlare, condividendo la propria esperienza, perché tutte ci sono passate, tutte hanno avuto timore di non essere comprese o di non essere ascoltate. Forse la vera lingua che lega tutte loro non è l’italiano ma la consapevolezza di quello che ognuna di loro ha provato e di metterla a disposizione delle altre, per farle sentire meno sole e comprese nelle loro difficoltà.

Tutto questo avveniva in un ambiente caotico ed estremamente vitale, molte portavano con sé i loro bambini, l’ingresso della bottega era spesso affollato di passeggini e giochi. E mentre le ore passavano veloci, accompagnate da dolci fatti in casa o da piatti speziati che venivano mangiati senza far caso all’orario o alla quantità di piccante, arrivava il momento di salutarsi. Alle 16.00 le donne iniziano ad uscire per andare verso le scuole in tempo per l’uscita dei figli e i ragazzi, gli altri protagonisti della Bottega, ad arrivare dopo essere tornati da scuola aver mangiato qualcosa ed essersi concessi qualche minuto di relax.

La porta della bottega è sempre stata socchiusa, la colpa potrebbe essere attribuita al mal funzionamento del chiavistello, tuttavia questo elemento apparentemente ostile ha permesso ad ogni curioso di varcare quella soglia, di entrare piano e di farsi liberamente coinvolgere da ciò che accadeva all’interno.


La bellezza di queste poche ore era ormai diventata la nostra normalità e forse proprio per questo oggi ripensare a quei momenti mi provoca una grande nostalgia, lo strappo che questa situazione ha provocato ci ha ributtato violentemente nelle nostre case, confinati fra quattro mura.

Ormai è più di mese che siamo costretti a questa condizione e forse alcuni di noi si sono lentamente abituati a riprogettare le proprie vite, private di quello che fino a poco fa era la cosa più spontanea e naturale: incontrare gli altri, nutrirsi della contaminazione reciproca. Noi operatori sociali siamo bravi a progettare, è stato difficile ma abbiamo unito tutte le nostre capacità, le nostre teste pensanti e i nostri cuori appassionati e ci abbiamo provato, ancora una volta, a immaginare un mondo e un modo di starci.

Ma cosa ne è delle persone che non hanno questa vocazione? Come vivono quelle donne che a fatica avevano conquistato lo spazio esterno, fuori di casa ora, che in quelle case devono tornarci e starci per forza e per il bene di tutti. Dobbiamo fare i conti con una dimensione davvero nuova per tutti? Penso che il non poter uscire di casa assume un significato diverso rispetto a quello che fino a poco fa poteva voler dire: è una scelta consapevole, altruista e responsabile; ma mi chiedo se farà riaffiorare quelle sensazioni di isolamento che forse si pensavano superate. Le chiamo tutti i giorni, chiedo loro come stanno, guardo i loro volti, interrogo i loro sguardi e chiedo loro di mostrarmi un angolino di casa o la vista dalla loro finestra, il mondo esterno “Il mio angolo di paradiso”, così lo ha definito Q, dove sento che non vedono l’ora di poter tornare.


Le sento arrancare lungo giornate che scorrono lente, le ore pomeridiane sembra si siano moltiplicate, gli spazi si sono ristretti e affollati da tutti gli abitanti di casa, spesso tanti.

Mi raccontano lo scoraggiamento iniziale, una sensazione di impotenza e vulnerabilità ma che allo stesso tempo ha fatto anche emergere ciò che prima non potevano vedere. Come racconta, tra le altre, J. questa costrizione ha permesso alla sua famiglia di riavvicinarsi e riscoprire quel tempo che prima era occupato dagli innumerevoli impegni della vita quotidiana; ritrovarsi insieme ai propri figli ormai adolescenti a giocare ai giochi in scatola, a cucinare la pizza o a piantare dei nuovi semi utilizzando ciò che si ha disposizione. Preoccuparsi dei vicini anziani dimostrando la propria solidarietà andando a fare la spesa o incontrandosi sul terrazzo per passare qualche momento insieme. Tutto questo adesso fa la differenza. J. sa bene che in questi momenti è importante più che mai tenere i contatti con gli altri, lei è cubana e nella sua vita ha più volte dovuto affrontare momenti complessi causati da condizioni esterne e sa che per affrontarli bisogna ricordarsi che non siamo soli e dove tu non puoi arrivare se esiste una comunità alle spalle ci arriverà lei per te.

M. invece passa le sue giornate insieme al suo bambino di due anni, per lui la reclusione non ha lo stesso valore che per gli adulti, non capisce come mai la sua vita si è dovuta capovolgere in questo modo. Quindi ricerca costantemente la sua mamma, vuole giocare con lei tutto il tempo.

M. non si scoraggia, va sul balcone e gioca a palla, poi cucina e quando finalmente il bimbo si addormenta segue dei corsi online di informatica e inglese. Perché ha fame di vita e di possibilità e anche attraverso il video i suoi occhi hanno la stessa luce di sempre.


C’è chi affacciandosi alla finestra, proprio come me non vede ciò che ha di fronte ma immagini lontane; c’è chi vede il deserto e spera di poter tornare prima possibile alla vita di prima pur sapendo che probabilmente non sarà più la stessa. Per rincuorarsi e non farsi sopraffare dalle angosce si utilizza l’ironia, grande strumento terapeutico! E allora per P. la mamma anziana che non riesce a stare ferma in casa si trasforma in un’atleta olimpionica di Curling, spazzando e spolverando ogni centimetro.

Sono donne e sanno cosa vuol dire fare fatica e soffrire, hanno storie complesse alle spalle. Hanno cercato di far fronte anche a questa epidemia, più abituate di altri a non sapere cosa accadrà domani e la frase “Andrà tutto bene” forse oggi non le rassicura più come all’inizio. Ridono, piangono, tengono duro e io spero tanto di aiutarle a mantenere i legami con quello che le appassiona che poi è quello che le unisce, perché non si lascino trascinare dalla paura ma provino a trasformarla in una nuova forza vitale che forse ci permetterà di imparare qualcosa di nuovo da questa terribile situazione.


Per le foto in bianco e nero ringraziamo Claudia Verga, le altre sono state scattate dalle donne raccontante nell'articolo durante il lock down.

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