Buongiorno a tutti,
sono Maria Rendani, insegnante di lettere dell’Istituto Comprensivo Iqbal Masih di Pioltello. Con questa lettera vorrei condividere con voi come mi sono sentita in questi due mesi di sospensione della normalità nelle nostre vite. Il 21 febbraio è stato l’ultimo giorno in cui ho messo piede a scuola, quel venerdì sono tornata a casa tardi perché abbiamo avuto una riunione con le famiglie delle classi terze, per parlare del nostro viaggio a Mauthausen. Il 26 febbraio noi dell’Iqbal dovevamo partire per il viaggio della Memoria e visitare il campo di Concentramento di Mauthausen ma il virus ci ha bloccati. Quell’ultimo venerdì di scuola ci siamo portati a casa tutti, adulti e ragazzi, un bel bagaglio di emozioni, di quelle vere e intense. Abbiamo fatto un tuffo nel passato non attraverso i libri di storia ma attraverso una drammatizzazione di quanto accadeva agli ebrei ai tempi della deportazione. Insieme all’educatore Nico Acampora, responsabile del progetto, abbiamo sperimentato cosa significa empatia, cosa significa mettersi nei panni degli altri, rivivendo quanto avveniva nei campi di concentramento quando gli esseri umani, privati della dignità, venivano trattati come oggetti. Quanti sacrifici e quante lotte contro la burocrazia per riuscire ad organizzare quel viaggio e per portare tutti, nessuno escluso, ma in un attimo qualcosa al disopra di noi ha fermato e annullato tutto…tutto vano, la corsa di quegli ultimi giorni, le telefonate per sistemare i documenti, le ore in questura insieme al Dirigente, tutto svanito nel nulla e io mi sentivo a pezzi. Non vi nascondo che ha preso il sopravvento lo sconforto e l’amarezza ma anche tanta tanta rabbia. Per qualcuno rappresentava l’unica possibilità della vita. Il giorno prima una mamma con le lacrime agli occhi mi prese la mano e mi disse: “grazie professoressa per questa opportunità, ho detto a mio figlio di guardare tutto e poi di farmi fare questo viaggio attraverso i suoi occhi”. Queste parole mi rimarranno sempre impresse nel cuore!
I primi giorni di sospensione, con la rabbia di questo fallimento nel cuore, sono stati proprio tremendi, non mi sentivo all’altezza della situazione e non mi riferisco alla gestione tecnologica della didattica a distanza ma alla parte umana ed emotiva. Temevo di non poter aiutare i miei alunni perché io stessa non ci credevo. Per me la tanto decantata “DAD” non è didattica, è semplicemente una modalità per affrontare al meglio una situazione di emergenza. La vera didattica è fatta di relazione e di scambio continuo, probabilmente sono troppo “montessoriana” ma per me l’apprendimento passa solo attraverso la relazione e non il distanziamento sociale. La mia preoccupazione nelle prime settimane di didattica a distanza era poter raggiungere tutti i miei alunni, anche coloro che per difficoltà linguistiche non potevano comunicare, coloro che per mancanza di mezzi economici non avevano un collegamento wifi h24, coloro che per una disabilità grave non potevano comunicare attraverso uno schermo. I primi giorni non esistevano orari, ero sempre al telefono o in video chiamata per aiutare tutti a collegarsi e per raggiungere tutti, per far capire l’uso del registro e delle aule virtuali ma soprattutto per dire “io ci sono ragazzi miei ma per andare avanti e crederci, ho bisogno di sapere che ci siete anche voi”. La didattica a distanza sicuramente ha consentito a tanti alunni di ritrovare, in queste difficili settimane, una routine scolastica attraverso l’organizzazione del piano settimanale delle video lezioni e gli ha consentito di ritrovarsi, seppur non spazialmente vicini, all’interno di un’aula virtuale, di uscire dall’isolamento e dalla demotivazione per tornare a sentirsi parte di un gruppo-classe. Tuttavia, da insegnante ed educatrice non posso chiudere gli occhi e dire che “va tutto bene” perché andrei contro quei principi di inclusione, interazione e condivisione nei quali credo profondamente. Purtroppo non posso negare che i ragazzi più deboli, in questo nuovo setting didattico hanno visto acuite le loro difficoltà, non posso negare che la didattica a distanza in alcuni casi abbia creato l’emarginazione e l’esclusione delle categorie più deboli e fragili. Dire questo non significa che non credo nella tecnologia e nei vantaggi degli strumenti informatici di cui, ad esempio, ci ha dotato il Comune di Pioltello. Sono una docente che utilizza nella sua didattica, in presenza, le nuove tecnologie e sperimenta ogni giorno l’uso di mezzi e metodologie innovative per stimolare gli alunni e renderli protagonisti attivi del loro processo di apprendimento. Ma proprio perché credo in quello che faccio e proprio perché il mio lavoro non lo vivo come un adempimento burocratico ma con il cuore e sono consapevole del suo valore educativo, oltre che didattico, non mi sento assolutamente di affermare “che va tutto bene” e che la “didattica a distanza o l’uso dei dispositivi informatici, includono tutti e non escludono nessuno”. Grazie alla tecnologia e ai mezzi informatici sono riuscita a vedere i miei alunni , riesco a fare lezione con loro, parlo, discuto, rifletto guardandoli attraverso lo schermo senza perdere la speranza di continuare a fare un buon lavoro perché so che loro hanno bisogno di punti di riferimento. Ma è anche vero che mi sono dovuta inventare l’impossibile, insieme ai miei colleghi, docenti ed educatori, per raggiungere tutti, anche coloro che, attraverso l’ipad non riescono a parlare, coloro che inizialmente rifiutavano di vederci attraverso uno schermo e lanciavano l’ipad o il telefono a terra perché emotivamente quel cambiamento era troppo forte da sostenere, coloro che non sanno dire una parola in italiano. E consentitemi di sottolineare che questo l’ho fatto non grazie all’ipad, a zoom, skype o meet, ma grazie ad una didattica che vince sempre su tutto ed è la “didattica del cuore”. Sicuramente in queste settimane ho capito cosa significa “fare scuola”, ma “non a scuola” e soprattutto l’importanza di fare gruppo, di fare comunità, di mantenere viva la comunità di classe, di scuola e il senso di appartenenza, di mantenere e rafforzare quelle relazioni costruite in presenza sia con le famiglie sia con gli alunni, per aiutarsi reciprocamente.
Ai genitori dei miei alunni ho chiesto, da insegnate ma anche da mamma e amica, di fare comunità nel vero significato del termine, di collaborare per il raggiungimento di uno scopo comune: aiutare i ragazzi ad affrontare nel migliore dei modi questo momento critico, limitando le ansie e le paure. Ai miei ragazzi ho chiesto di essere resilienti, di imparare a riorganizzare positivamente le loro vite attraverso nuove abitudini e ritmi più lenti. Ancora oggi, dopo ogni lezione live, quando li vedo stanchi di questa clausura e tristi, cerco di ricordargli che dobbiamo affrontare questo momento difficile con forza e responsabilità, cogliendo da questa pausa forzata il vero valore della vita, l’importanza delle relazioni umane e di tutto ciò che spesso travolti dalla frenesia della quotidianità non apprezziamo.
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